Il
dramma dell’esercito italiano scoppia alle 19,45 dell’8
settembre 1943, quando la radio italiana divuiga il messaggio
del maresciallo Badoglio nel quale il capo del governo comunicava
che l’italia ha “chiesto un armistizio al generale
Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate”
e che la richiesta è stata accolta. Il dramma si trasforma
nel giro di poche ore in tragedia per centinaia di migliaia
di soldati abbandonati a se stessi nell’ora forse più
tragica dall’inizio della guerra.
Le forze presenti sulla penisola e in Sardegna ammontano a
un totale di circa 1.090.000 uomini (10 divisioni nell’italia
settentrionale, 7 al centro e 4 al sud della penisola e altre
4 in Sardegna), contro circa 400.000 soldati delle unità
tedesche; ma mentre queste ultime sono perfettamente efficienti
e fortemente dotate di mezzi corazzati, l’esercito italiano
è uno strumento bellico estremamente debole(di questo
sono convinti anche allo Stato Maggiore, che infatti considera
le truppe italiane sconfitte in partenza), con una buona metà
delle divisioni del tutto inefficienti, scarsamente dotate
di mezzi corazzati e male armate. A queste forze, numericamente
notevoli, vanno sommate le unità italiane dislocate
nei vari settori fuori dei confini metropolitani: 230 mila
uomini in Francia (e Corsica), 300 mila circa in Slovenia,
Dalmazia, Croazia, Montenegro e Bocche di Cattaro, più
di 100 mila in Albania e circa 260 mila soldati in Grecia
e nelle isole dell’Egeo: in totale 900 mila uomini circa,
in teoria una forza formidabile, ma solo in teoria. In realtà
si tratta di un esercito assolutamente inadeguato ai tempi,
su cui non si può in alcun modo fare affidamento. Se
a questa situazione si aggiunge, in quel fatidico 8 settembre,
l’assoluta mancanza di direttive da parte dei responsabili
della macchina da guerra italiana (e in particolare del capo
del governo Badoglio, che pure era un militare, del gen. Ambrosio,
capo di Stato Maggiore Generale, e del capo di Stato Maggiore
dell’Esercito gen. Mario Roatta) e l’imperdonabile
leggerezza con cui si affronta il prevedibile momento della
resa dei conti con i tedeschi, si puo capire lo sfacelo, il
crollo totale dell’esercito italiano all’indomani
dell’annuncio della firma dell’armistizio. Nella
dissoluzione generale (al momento della prova, molti comandanti
sono) lontani dai reparti, o se sono presenti non hanno ricevuto
disposizioni), si verificano tuttavia alcuni coraggiosi quanto
inutili tentativi di opporsi all’aggressione tedesca:
in Trentino-Alto Adige e in Francia le truppe alpine reagiscono
all’attacco, ma sono episodi di breve durata; i focolai
di resistenza sono spenti con spietata ferocia.In Grecia,
nel desolante spettacolo del disarmo dei reparti italiani
da parte dei tedeschi, brilla il coraggio della divisione
Acqui che a Cefalonia sceglie la lotta e la conseguente autodistruzione:
9646 morti, una vendetta inutile ma feroce.
Il 7 novembre 1943, nel suo rapporto a Hitler sulla situazione
strategica, il capo di Stato Maggiore della Wehrmacht, gen.
Jodl, riassume in cifre quanto è successo in Italia
dopo l’8 settembre: parla di 51 divisioni “certamente
disarmate”, di 29 divisioni “probabilmente disarmate”
e di 3 divisioni “non disarmate”. I prigionieri
sono stati più di mezzo milione, di cui quasi 35.000
ufficiali, il bottino in armi e materiali ingente.Non si parla
di morti, di cui non si saprà mai neppure la cifra
approssimativa. Un discorso a parte meritano la aeronautica
e la marina italiane. Dei circa 1000 aerei teoricamente disponibili
(tra bombardieri, caccia, velivoli da combattimento e da ricognizione),
sono utilizzabili per varie ragioni non più della metà:
dopo l’8 settembre, 246 velivoli riescono a decollare
per raggiungere territori non direttamente controllati dai
tedeschi. Ne giungono a destinazione 203. La più efficiente
delle tre armi è sicuramente la marina, che schiera
5 corazzate, 8 incrociatori, 7 incrociatori ausiliari, 23
sommergibili, una settantina di MAS e 37 cacciatorpediniere
e torpediniere. L’8 settembre questa rispettabile forza
navale è cosi' dislocata: si trovano a La Spezia e
a Genova, al comando dell’ammiraglio Bergamini, le corazzate
Roma, Vittorio Veneto e italia (ex Littorio); gli incrociatori
Eugenio di Savoia, Duca degli Abruzzi, Montecuccoli, Duca
d’Aosta, Garibaldi, Regolo; due squadriglie di cacciatorpediniere.
Nel porto di Taranto sono alla fonda le corazzate Doria e
Duilio e gli incrociatori Cadorna, Pompeo Magno, Scipione,
al comando dell’ammiraglio Da Zara.
Unità minori si trovano in Corsica, in Albania e in
altri porti italiani, mentre 2 e 9 sommergibili sono, rispettivamente,
a Bordeaux e Danzica. In porti giapponesi, infine, 4 sommergibili,
2 cannoniere e l’incrociatore ausiliario Calitea. All’annuncio
della firma dell’armistizio a Genova e La Spezia, la
prima reazione è quella di affondare le navi, ma dopo
un colloquio telefonico tra l’ammiraglio Bergamini,
comandante la squadra, e il capo di Stato Maggiore della marina,
ammiraglio De Courten, la mattina del 9 settembre la squadra
navale, secondo il suggerimento di De Courten, prende il mare
alla volta dell’Isola della Maddalena, presso le coste
nord-orientali della Sardegna. Nelle primissime ore del pomeriggio
la squadra è in procinto di entrare nell ‘estuario
del l’isola quando giunge all’ammiraglio Bergamini
un messaggio urgente di Supermarina con l’ordine di
invertire la rotta e di puntare in direzione di Bona, in Algeria.E'
successo che in mattinata i tedeschi hanno occupato la Maddalena
e predisposto un piano per impadronirsi delle unità
italiane. L’ordine viene eseguito immediatamente; la
squadra fa rotta in direzione delle coste africane mentre
i tedeschi, svanita la possibilità di catturare le
navi da guerra italiane, rendono operativo il piano per il
loro affondamento.
E infatti poco dopo le 15 una formazione di Junker attacca
la squadra navale dell’ammiraglio Bergamini, senza peraltro
conseguire risultati concreti. Verso le 16 un altro gruppo
di bombardieri DO-217 è sulle unità italiane.
L’attacco questa volta ha successo, e ne fa le spese
proprio l’ammiraglia, la corazzata Roma che, colpita
da due bombe-razzo teleguidate alle 15,52, cola a picco in
28 minuti. Dei 1849 uomini dell’equipaggio, 1253 perdono
la vita: tra questi il comandante la squadra ammiraglio Bergamini
e tutto lo stato maggiore. Il comando passa all’ammiraglio
Oliva, che è l’ufficiale più anziano,
con insegna sull’incrociatore Eugenio di Savoia. La
squadra fa rotta in direzione sud e nella mattinata del 10
settembre entra nel porto della Valletta a Malta, dove già
hanno trovato rifugio le unità della flotta dislocata
a Taranto e dove giungerà il giorno dopo, 11 settembre,
la corazzata Giulio Cesare. Per la flotta italiana la guerra
continua al fianco degli Alleati. Dal 10 giugno del 1940 l’Italia
ha perduto (nel Mediterraneo) circa 3 milioni di naviglio
mercantile (vale a dire più dell’80 per cento
di tutta la flotta mercantile) e quasi 300 mila tonnellate
di naviglio da guerra con 28.937 marinai.